giovedì 25 settembre 2008

Articolo di Franco Cardini (giunto via mail)

Credo che in questo paese si debba ancora imparare a discutere e magari a
polemizzare: ma con serenità e, possibilmente, anche con qualche argomento che
vada al di là delle pillole di conformismo e di politically correct.
Non riesco per esempio a capire perché nella nostra opinione pubblica e nei
relativi mass media si debba sempre e per forza gridare allo scandalo ogni
volta che qualcuno azzarda pareri dietro i quali sia sospettabile la presenza
di di tesi o anche solo di proposte che appena appena escano dai solchi ben
collaudati delle idées données e delle Verità Inconfutabili garantite dai
manuali di scuola media e ripetute dai poligrafi travestiti da ricercatori che
impestano le nostre librerie con best sellers regolarmente scopiazzati da
vecchi libri di storia. Quelli col Barbarossa cattivo e i lombardi buoni, col
Radetzky feroce e i bravi Tamburini Sardi, col “Mamma li Turchi” e col meno-
male-che-c’è-stata-Lepanto. Insomma, con la storia detta, ripetuta, collaudata
e ribadita sul metro di quei geniali maĩtres-à-penser che molti decenni or
sono, mossi a pietà degli studenti pigri, redassero i manualetti noti come
“Bignami”. E, se ci si oppone al Bignami, ci si becca la condanna secca come
una mannaia: “revisionisti!”.
Ora, premesso che “revisionismo” è parola che dalla storia della politica sé
Internazionale” per poi dilagare nel mondo della semistoria e della
pseudostoria, è necessario sia chiaro che il lavoro degli storici, intendo
di quelli veri, consiste sempre e inevitabilmente, in gran parte, nella
revisione delle tesi e delle letture dei fatti quali gli sono state confidate
da chi ha lavorato prima di lui. Non esiste quindi nessuna pagina di storia che
sia stata scritta una volta sola e per sempre. La storia è una fatica di
Sisifo.
Ecco perché è stata obiettivamente ridicola, al di là di qualunque posizione
si voglia difendere, la polemica scatenata dall’orazione del generale Antonio
Torre che, commemorando ufficialmente il 20 settembre scorso il 138°
anniversario della Breccia di Porta Pia, si è particolarmente soffermato sui 19
caduti dell’esercito pontificio sorvolando su quelli italiani; e che il sindaco
di Roma Gianni Alemanno non abbia dal canto suo provveduto a rimediare alla
gaffe dell’alto ufficiale: sempre che – ha commentato qualcuno – solo di gaffe
si sia trattato e non, orrore, di “scelta di campo” o peggio, raccapriccio, di
“revisionismo”.
Ora, va da sé che in una sede ufficiale e paludata, per sua natura retorica e
convenzionale, come quella di una commemorazione pubblica, non è mai il caso di
lasciarsi andare a discussioni storiografiche: il che del resto non era senza
dubbio nelle intenzioni e forse nemmeno nelle possibilità obiettive del
generale Torre, che fa il militare e non lo storico.
Quel che però non mi meraviglia affatto – ormai so da tempo che cos’è l’
Italia -, ma comunque continua a indignarmi, è la desolante piattezza del coro,
praticamente unanime, di giornalisti, di politici e perfino (e ciò m’è
dispiaciuto) di qualche storico serio: tutti allineati e coperti nello
stigmatizzare il silenzio di Alemanno o comunque la sua scarsa energia nel
difendere, a scanso di equivoci, la tesi ufficiale della quale egli, in quanto
sindaco, viene considerato una specie di garante e di custode (e a dire il vero
non se ne capisce il perché).
Insomma. Perché mai non si dovrebbe cominciar a dire che in realtà la storia
del nostro Risorgimento, così come si svolse tra 1848 e 1870, non andò affatto
come andò perché non avrebbe mai potuto andare altrimenti; e tanto meno che non
andò per nulla nel migliore dei modi possibili? E, badate, qui ucronia e
fantastoria non c’entrano per niente. Il dogma che la storia non si possa
scrivere “al condizionale”, “con i se e con i ma”, è una fesseria che nessuno
storico serio – a parte un manipolo di paleostoricisti convinti – non dice più
da molto tempo. E non sono io ad affermarlo: bensì uno dei più grandi studiosi
viventi, David S. Landes.
La discussione non è affatto oziosa: e tanto meno lo sarebbe al livello
politico, se non vivessimo in un paese dominato, fra le altre cose, da una
disinvolta schizofrenia e da un’impudica ostentazione d’incoerenze. Vorrei
proprio che qualcuno mi spiegasse perché, nei nostri manuali scolastici,
continua tuttora a trionfare una visione del Risorgimento degna del libro Cuore
e delle Maestrine dalla Penna Rossa – alcuni epigoni delle quali sembrano oggi
sedere sugli scranni del governo – mentre quel governo stesso si regge con l’
appoggio determinante d’una forza, la Lega Nord, che se fosse un po’ meno
bécera dovrebbe pur sviluppare, appunto nel quadro di quanto essa stessa
sostiene, anche un serio discorso critico sulle scelte che condussero al
processo d’unità nazionale, sui metodi che furono adottati per conseguirle,
sulle conseguenze a cui condussero. Perché la soluzione unitaria e centralista,
voluta dalla monarchia sabauda che mirava all’espansionismo del suo potere
dinastico e dai dottrinari “neogiacobini” che seguivano Mazzini e Garibaldi (e
una parte dei quali sacrificò al dogma dell’ “unità indivisibile” i suoi
stessi ideali repubblicani), non solo per lungo tempo non era stata l’unica
possibile, ma era stata quella considerata, anche a livello internazionale, la
più avventuristica e pericolosa.
L’unità proclamata nel 1861 e coronata dalla presa di Roma del 1870 andava
direttamente contro un millennio di storia italiana, ch’è e sempre stata per
sua natura policentrica, municipalistica, regionale e cittadina; e i capi degli
stati italiani preunitari, a cominciare dal papa, si erano tutti – sia pur in
diversa misura – adattati ad accettare una formula di unità federale, su un
modello non lontano da quello che (essa sì in coerenza con al sua storia) fu
adottata dalla Germania proprio in quello stesso 1870. E in tale senso, anche
se con accentuazioni diverse, si erano espressi gli ingegni migliori e più
equilibrati del nostro Risorgimento, dal Gioberti al D’Azeglio al Cattaneo.
Ma il governo piemontese, guidato dal Cavour e dai suoi successori, scelse –
fino a un certo punto in accordo con Napoleone III, poi addirittura senza e
contro di lui – la politica delle provocazioni, dei colpi di mano e dell’
alternanza di menzogne e di atti di violenza per giungere, contro il diritto e
la legittimità internazionali, alla violazione patente dei diritti dello stato
pontificio. Che oggi tutti, anche senza sapere di che cosa si trattava, si
sbracciano a qualificare di “corrotto”, di “incapace”, di “antistorico”, mentre
la realtà del tempo non presenta per nulla tale quadro. Né si capisce perché si
continui a far finta di non ricordare che la presa di Roma poté compiersi,
proditoriamente da parte italiana, non appena, in conseguenza della sconfitta
di Sedan, la protezione dell’imperatore dei francesi a Pio IX venne meno. O
perché molti abbiano rimproverato il generale Torre per il suo omaggio –da
soldato, se non altro – agli zuavi e in genere ai volontari che accorsero
soprattutto dalla Francia a difendere il papa che aveva tutto il diritto a non
venire attaccato su quel territorio che egli legittimamente governava.
E sarebbe poi stata con certezza peggiore, per esempio, un’Italia federale,
di quanto sia stata l’Italietta unitaria che determinò la questione del
Mezzogiorno, provocò scandali finanziari gravissimi a ripetizione, inventò
infamie fiscali come la “tassa sul macinato” ch’era una vera e propria tassa
sulla miseria, coniò “leggi internazionali” e massacrò contadini siciliani
(Bronte) e operai (i cannoni ad “alzo zero” del Bava Beccaris, decorato dal “Re
Buono”), fu incapace di rimediare al flusso continuo di poveracci che
abbandonavano il paese per disperazione e si dimenticò del destino degli
emigrati, infine ci gettò inutilmente – e con opportunistica furbizia – nel
grande macello della prima guerra mondiale, da cui sarebbero appunto usciti i
tanto detestati comunismo e fascismo? Aveva davvero proprio tutti i torti, l’
“infame” Franti?
Così è, se vi pare. Perché non proviamo a discuterne pacatamente, invece di
stracciarci le vesti ogni volta che qualcuno prova a commettere l’indicibile
peccato consistente di cercar di rimetterci in moto le meningi? E chiamatelo,
se volete, “Revisionismo”.

Franco
Cardini

1 commento:

Anonimo ha detto...

Vale lo stesso discorso di prima.L'unità d'Italia è una farsa e sinceramente io vorrei con tutto me stesso Franco Cardini ministro della cultura,altro che Sandro Bondi.Ma questo è un altro disorso.Mi dispiace solo che Cardini difenda l'indifendibile:ovvero il cattolicesimo....simone