giovedì 16 settembre 2010

ALLA VIGILIA DEL MATRIMONIO, IL CAPOREDATTORE DI LIBERO, GIULIANO ZULIN, RICORDA IL SUO BORGO NATALE


Canove-Milano. Solo andata. Settecento abitanti scarsi con
tro un milione e mezzo di persone. La campagna e la città. Da una parte si parla dialetto. Sempre. Dall’altra si comunica in italiano. Un po’ terronizzato, ma con le “e” aperte. A Canove le lasagne sono la tagliatelle di Milano. A Milano le lasagne sono il pasticcio di Canove. A Canove ci si conosce tutti. Casa per casa. Pregi e difetti. A Milano non sai nemmeno chi siano i vicini di pianerottolo.
A Milano esci di casa con la testa impegnata. Non guardi niente. Sei concentrato su cosa devi fare. Ti ripassi mentalmente gli appuntamenti. Hai il telefonino che squilla spesso. Gente che ti chiama… “dott. …come sta? La disturbo? Sono in una riunione, mi chiami dopo…” e via con incontri, comunicati, mail, feste, inviti.
A Canove non ti chiama nessuno. Vai direttamente a casa di chi t’interessa. Suoni il campanello, ma più spesso è il cane che avvisa dell’ospite. Abbaiando. Si va direttamente al sodo. Non si dice “come stai?”. Piuttosto “viento drento?…voto un goto?…Beito calcosa?”.
Gli orari e gli appuntamenti sono fissi a Canove. Durante la settimana ci si alza intorno alle 6.30-7.00. Colazione non abbondante (caffélatte col panbiscotto), abbigliamento casual e in macchina si va al lavoro. Nessuno prende i mezzi pubblici. Solo gli studenti. A Porto c’è sempre coda prima delle 8. Si perdono cinque minuti e la gente si lamenta perché i vigili sono lenti. Fanno passare sulle striscie chiunque: “Potrebbero raggruppare un po’ di gente prima di fermare il traffico…”. A mezzogiorno stesso ritornello. Si scappa a casa per mangiare. E poi si ritorna al lavoro. Fino alle 17 o 18. Alcuni si fermano in palestra, raramente si va all’aperitivo. Cena a casa. E alla sera si esce poco. Se pensi di cambiar vita ti sbagli di grosso. Al massimo puoi spostarti a Porto o a Legnago. E già è un passo.
Milano? Non ci sono orari. Quelli del lavoro sono lunghi, perché flessibili. Non sai mai cosa potrebbe capitarti. Le novità sono spesso dietro l’angolo. Stringi mani, vedi gente. E’ difficile orientarsi, all’inizio. I viali sembrano simili. E poi i semafori: appena appare il verde, scatta il cambio. Prima, seconda, terza. In tre secondi tre sei già oltre l’incrocio. A Legnago dopo il verde passano anche tre secondi prima che il primo della fila parta. Che lento. Ti viene il nervoso se sei abituato a Milano. Mangi in giro per i bar che ti propongono piatti pre-confezionati. Alla sera giri per locali e ristoranti. Ne scopri sempre di nuovi, ma quando entri in confidenza con qualche gestore ti sembra di tornare in provincia. Spettacolo. Ti sposti in macchina o con i mezzi perché il parcheggio a volte è un miracolo. E quando lo trovi rischi otto volte su dieci di prendere la multa. Quindi metro, tram, autobus, trenino. Su e giù per le rampe. Di corsa. Perché la gente ti aspetta ma non troppo. Una cosa bella di Milano? Sai che se ti impegni e non molli c’è sempre qualcosa da fare e non resterai mai disoccupato o con le mani in mano. Tutto si può fare. Per chi viene dalla provincia l’importante è mantenere la mentalità da campagnolo: la semplicità dei rapporti è la chiave per conoscere gente e trovare nuovi amici. Se ti milanesizzi perdi te stesso e diventi un ibrido. Né carne né pesce. Insipido.
La sfida non è comunque facile. Per stare a Milano serve coraggio e costanza. Ricordo la mia prima settimana. Il primo giorno di lavoro. Sono partito in treno da Legnago quasi all’alba. Verona e poi Milano centrale. Metro, la verde, fino a Cernusco, dove un amico mi offrì un letto. Sì, ma dalla metro a casa c’erano due chilometri. Tutti a piedi. Metto giù il borsone. Riesco e ritorno alla metro. Altri due chilometri. A piedi. Ancora la verde fino a Loreto. Cambio con la rossa. Fermata Rovereto. Lì c’era il primo Libero. Erano le undici, ma io ero già ubriaco. Dal lavoro sono uscito alle dieci di sera. In metro, mentre tornavo a Cernusco vedevo gente che parlava, rideva, scherzava. Parlavano di vedersi la sera dopo, di calcio, di amici comuni. Mi è scesa la malinconia. Appena uscito dalla metro sono scoppiato a piangere. Volevo tornare a casa. La mattina dopo ho chiamato mio papà, l’unico punto fermo della mia vita. Mi ha detto semplicemente: “proa un par de setimane e se proprio non te ghe la fe, te torni indrio”. Appunto “proa”. Go proà. E non sono più tornato indietro. Sono invece andato avanti. Molto. Grazie a tante persone. La famiglia, gli amici di sempre. Eddy e Pavel. Pavel, l’assessore, veniva spesso a Verona a prendermi in stazione al sabato sera. A mezzanotte e sette minuti. Tornavo sempre nella Bassa. Lui e mio papà si alternavano. Quando li vedevo tornavo a parlare in veneto e in un secondo le tensioni del lavoro, i piccoli-grandi problemi scomparivano. Una liberazione che durava poco. Un giorno. La domenica. Ma mi dava la carica per tutta la settimana. In treno, da Lambrate, si trovava di tutto. Una fauna incredbile. Puttane, discotecari, gente senza un perché e io, che mi leggevo i giornali del giorno prima per farmela passare. Pavel mi ha visto crescere professionalmente. Gli raccontavo tutto. Retroscena, dubbi, problemi, possibilità. Un Amico. Così come Eddy, più avanti.
Con loro ho incominciato a tralasciare un po’ Canove, anche se nel cuore ci sarà sempre spazio per questo piccolo paese che mi ha dato tanto pur non avendo niente da offrire. La piazza, il ponte, i giardini, il campetto da calcio. Gli amici: Alberto, Diego, Andrea, Elia, Stefano, i Fava, Tepa, Bibo, Muna, Nena (che sabato el me sposa), Zanca e tanti altri. I giri in motorin a vuoto, tanto per fare qualcosa. Gli scherzi, le bravate. La base di partenza per fare tutto. Alla sera potevi andare ovunque, ma prima di tornare a casa si passava sempre dalla piazza. E lì arrivavano tutti. Iniziava un’altra serata alle tre di notte. Il bar, Bepo, ha chiuso quando entrammo nel duemila. Non aspettò l’arrivo dell’euro. Non aveva più voglia. Ma fino ad allora quante risate, quante serate. L’amichevole scortesia di Bepo era inimitabile. Un must. E i clienti? Personaggi da film, uno di quelli di Pupi Avati. Che bello, che bei ricordi. Ridevi sul niente. Su un’espressione strana che usciva dalla bocca di un settatenne. Uno spettacolo. Con i ragazzi si stava in piazza fino all’una per decidere dove andare. Ma alla fine si sapeva che si andava al Principe e dopo un’ora e mezza si tornava a Canove. Niente di che. Serate in fotocopia. Ma ogni sera c’era un qualcosa, una battuta, che colorava la notte. La sagra. Un evento. Risotto dopo i foghi, al martedì. Succedeva sempre una rissa. Valeva la pena esserci. Una volta, nel ’94, arrivò un temporale con tromba d’aria e violenta grandinata. Noi sotto il tendone a tenerlo fermo. Gente che urlava, bestemmiava e il prete che invitava tutti alla calma. Poi in chiesa, con gli asciugamani. Cose da raccontare ai nipoti. Cose che non torneranno più. Come la bottega di Romano. Con la Luciana e Michele. Quante volte sono andato in negozio a parlare di tutto: calcio soprattutto, ma anche vita, politica, economia. Prospettive, qualche sogno.
In piazza a Canove non avrei mai immaginato che sarei andato a Milano. Che avrei lasciato tutto per vivere in città. Fissavi le auto, quando passavano, parlavi, giocavi a calcio anche alle due di notte. Sì, studiavo, liceo e università. Non sapevo cosa avrei fatto da grande. Né obiettivi, ma nemmeno limiti. A Canove però ho capito cosa non bisognava fare. Mai mollare e andare sempre avanti. Grazie Canove, il mio cuore batte sempre per te.

2 commenti:

Oblomoff ha detto...

Questa sintassi. Frammentata. Può essere alla moda. Può far credere a qualcuno. Che il tuo racconto. Vibri. D'emozione. Può far pensare a chi ti legge. Per caso. Che, non c'è dubbio, sei un giornalista. Italiano. Che isola le frasi relative. Che ricorre a frasi. Nominali. Perché è brillante. È cool. (Isolare.) (E ricorrere.) (Naturalmente.) Ma chi ti legge. Per caso. Può anche ritenere. Che sia noiosa. Come il singhiozzo. E credere. Che alla lunga. Stanca.

____ ha detto...

A.m.e.n!